Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per migliorare l'esperienza utente. Accettando questo banner o scorrendo questa pagina o cliccando qualunque suo elemento si acconsente all’uso dei cookie. Per saperne di più visitare la sezione Cookie Policy.
    >

La Bauta

La bauta è la sintesi e la maschera più tipica della Venezia del Settecento.

La sua particolarità consisteva nel poter essere indossata sia durante il carnevale sia nella vita quotidiana come un comune accessorio (anche se esistevano precise limitazioni stabilite a volte dalla legge).
La sua semplice e principale funzione era quella di nascondere il volto.

La bauta permetteva per la particolare forma di alterare la voce e quindi essere meno riconoscibili e allo stesso tempo riuscire a bere e mangiare senza aver bisogno di levarla.
A Venezia tra il XVII e il XVIII secolo indossare una bauta era ormai uno status-symbol, tanto che le norme di buona educazione volevano che il rispetto o il saluto era dovuto e cortese a ogni maschera, appunto perché non si poteva subito conoscere chi fosse a indossarla, personaggio di spicco o semplice popolano.

Le baute potevano avere varie caratteristiche. Venivano realizzate dai mascareri e le dimensioni si dovevano comunque conformare a seconda della comodità dei dai lineamenti del volto, senza esser troppo diversa dal tipo "standard", in modo da mischiarsi e confondersi nella folla.
Durante il carnevale esistevano anche altri mascheramenti, alcuni eccessivi, fantasiosi e ricchi per le feste ufficiali, ma il travestimento più usuale e obbligatorio a Venezia nel Settecento fu la baùta o baùtta.
Spesso si tende a confondere la Bauta-maschera con la Bauta-costume.
La bauta-maschera in realtà è la sola "larva" (maschera inizialmente di color nero, poi bianca, fatta in gesso, cartapesta piana giapponese o cuoio). La forma ricopriva tre quarti del volto lasciando leggermente visibile il mento e presentava due fori elittici per gli occhi, gli zigomi evidenziati e lo spiovente che partiva da sotto il naso allargandosi come un becco. Questa conformazione diventava una cassa armonica che rendeva chiusa e contratta la voce deformandone il timbro. La sporgenza che assumeva o di punta o sui fianchi discendenti dagli zigomi era anche un modo comodo per poterla impugnare una volta tenuta in mano.
La bauta-costume è il travestimento nel suo insieme. Comprende cioè la larva, lo xendal o roccolo di pizzo, il tricorno (cappello a tre punte solitamente nero) e il mantello, successivamente sostituito spesso dal tabarro. "Xendal" deriva dalla contrattura della parola "cendale" o "zendale", che rappresentava una lunga stola in origine di taffettà di seta con la quale le dame si coprivano il capo e le spalle e che si arricchì nel tempo fino a diventare totalmente in pizzo e a forma conica e chiusa. Questo tipo di accessorio venne in seguito usato anche dagli uomini perché garantiva l'assoluto anonimato e l'impenetrabilità degli sguardi una volta messa la maschera. Lo "zendale" nella sua originaria forma resta ancora con la maschera della moretta o servetta muta.

Quasi tutti potevano mascherarsi a Carnevale, le distinzioni di ceto e di sesso cadevano, la bauta permetteva la massima libertà e soprattutto nessuna differenza, tutti simili e tutti confondibili in un garantito e rispettato anonimato.
Sotto la bauta alla consueta vesta o toga nobiliare o mantello sfarzoso, si sostituì il più comune tabarro nero, divenendo così un comportamento irregolare che veniva più volte ammonito dagli Inquisitori veneziani.
La bauta nascondeva l'identità e con il tabarro, tutti così vestiti si sarebbe creata una confusione e una somiglianza unica e al tempo era molto importante per gli inquisitori e la polizia individuare con rapidità chi poteva essere pericoloso o meno. Il tabarro era un mantello a ruota in lana scura e solitamente usato dai popolani, specialmente per ripararsi dal freddo invernale nelle campagne ma usato dai briganti perché permetteva di nascondervi sotto armi o qualsiasi altra cosa.
Usare il tabarro in città come Venezia stava a significare che si era o si voleva assomigliare ai forestieri. La necessità del tabarro fu una scelta univoca, il popolo non avrebbe potuto avere gli abiti lussuosi dell'aristocrazia e quindi se ci si voleva scavalcare i limiti dettati dalle regole, l'unica scelta possibile era per l'aristocrazia di usare abiti popolani. Il tabarro nero annullava ogni colore o distinzione ed era la soluzione per i nobili nel Settecento.

Il termine bauta deriva secondo alcuni storiografi dal piagnisteo "bau.. bau.." per l'angoscia dei primi figli degli aristocratici che la videro mentre secondo altri dal termine "bava" che identificava nel dialetto veneziano il roccolo di pizzo che avvolgeva la testa sotto il tricorno.

La bauta nell’arte

Nel 1748 Carlo Goldoni inserì nelle sue rappresentazioni anche attori mascherati con bauta, rappresentando così uno scorcio del suo secolo. Ne "La Vedova Scaltra", ancora Goldoni a questo proposito fa recitare ad Arlecchino una frase birichina su una donna in Bauta e sulla assoluta misteriosità che cela: "Delle volte se crede de trovar el sol d'agosto, e se trova la luna de marzo".
Sovente nelle rappresentazioni più autorevoli de "Il don Giovanni" di Mozart, nella parte finale, tre personaggi tornano mascherati per accusare i delle nefandezze del libertino prima dell'arrivo della statua del commendatore. Questo era dovuto ai ricordi del librettista Giovanni da Ponte, che aveva vissuto a Venezia e che ne era stato poi allontanato.

La bauta è sintesi di un'epoca storica ed un costante elemento della vita quotidiana settecentesca di questa città. E' stata ritratta da molti pittori come Pietro Longhi, il Canaletto o Giovanni Domenico Tiepolo o Francesco Guardi.
Pietro Longhi era ritrattista di momenti raccolti o leziosi della vita veneziana, Canaletto che con la sua macchina oscura riproduceva più velocemente panorami e vedute (i famosi "capricci"), Tiepolo e il suo discepolo Guardi che invece erano più barocchi nei colori.
Il culmine fu raggiunto tangibilmente nel Settecento.

Interessante notare che già nel Quattrocento il dipinto del miracolo di Sant'Orsola del Carpaccio immortalava la figura di un arlecchino in posa da gondoliere.

In parecchie ville affrescate dal Tiepolo si riconosco opere in cui compaiono molte maschere.